9 di sera – 2015

Testi e musiche: Davide Trebbi
(tranne traccia 3, testo di Fabrizio Celli)

Produzione artistica e arrangiamenti: Edoardo Petretti;
Missaggio e distribuzione digitale: Mario Salvucci;
Mastering e controllo audio: Giancarlo Barbati;
Progetto grafico: Marie Poumeyrol;
Layout: Fabrizio Puzzilli

Hanno suonato:
Davide Trebbi – voce, chitarra
Edoardo Petretti – fisa, piano, synth
Matteo Alparone – basso
Simone Avincola – chitarra
Umberto Vitiello – percussioni e colori
Fabrizia Pandimiglio – violoncello
Adriano Dragotta – violino
#AnywhereStudios ©

 

Novel di sera

Nove di sera e avrei ancora voglia di parlare. E’ caduto l’inverno,
c’è poca luce, accendo una sigaretta mentre la musica inonda lentamente la stanza.
Osservo le nuvole andare in fumo, lassù, verso il soffitto, e fuori dalla finestra.
Poco rumore là fuori, per la strada.
In televisione danno un vecchio film di Monicelli, in bianco e nero.
Lascio il volume al minimo mentre la chitarra esce dal fodero e ti dedico qualcosa. Sulla
tavola restano i bicchieri vuoti, vino rosso, il tuo preferito.
Ne vorresti un po’? Ma davvero non rimane niente? Nessuno ci sente? Dovresti dirmelo tu.
Qual è il confine tra forza e fragilità, autonomia e dipendenza? Davvero è solo un gioco? Io
lo so che te ne pentirai.
E vorrei solo alzarmi, raggiungerti, da qualche parte, chissà dove, nella notte. Gettare un
ponte fra due isole, circondate dal male e dal bene che ci siamo fatti. Eravamo insieme ma
ora tutto è fuori tempo, voglio te ma le cose sono cambiate, le nostre strade divise e io qui, a
riflettere sulle conseguenze,
su queste distanze. Aspetto risposte. Mi alzo, poi torno a sedermi.
Potrei farlo, sai? Dimenticare quelle fotografie, almeno per qualche ora. Uscire e andare via,
su due ruote, cavalcare fin dove ci sono luci e affogare le ultime ore blu che mi separano dal
mattino.
Non sarebbe difficile. Corro da una vita, ho imparato a farlo molto tempo fa: nuovi volti,
frasi rapide, anelli e rossetti ed espressioni stupite, poi sempre complici. E così che funziona.
Altri occhi verdi, altri sorrisi, poi tintinnii di chiavi e porte che si aprono piano, altre scale da
salire e scendere, dopo che tutto e niente si è consumato. E allora dai, farò piano, per non
svegliarla, chiuso quel cancello, riaccenderò il motore e poi giù, fino alla mia strada,
al mio giardino. Le bombe delle sei fanno più male, ora che il giorno muore e io sto qua,
sulla nostra terrazza, a vedere un’altra alba solitaria.
Staserà torno sul palco. A volte vorrei stare lì per sempre, non svegliarmi mai. Senti, io lo so
cosa merito, e avrei voglia di perdonarti, abbracciarti dopo averti maledetta e raccontarlo, ma
nessuno capirebbe: riflessi, inquietudini, malinconie…certe cose puoi solo cantarle. E allora
buonanotte, buongiorno, fai buon viaggio. E chissà, forse capiterà ancora: in fondo alle scale
di un addio prima o poi c’è sempre un arrivederci.

 

Ariel Bertoldo